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Chiesa di San Gregorio Armeno

La chiesa di San Gregorio Armeno

La chiesa di San Gregorio Armeno (popolarmente conosciuta anche come chiesa di Santa Patrizia) è una chiesa monumentale di Napoli sita nell’omonima via, tra il decumano maggiore e quello inferiore del centro antico. Assieme all’adiacente complesso monastico, costituisce uno degli edifici religiosi più antichi, grandi e importanti della città. Il complesso religioso sorge lungo l’attuale via San Gregorio Armeno, ossia l’antica strada Nostriana che prendeva il nome dal vescovo Nostriano che nel V secolo fondò in zona il primo ospedale per i poveri ammalati. Secondo una prima tesi, la primaria chiesa edificata in quell’insula sarebbe stata innalzata sulle rovine del tempio di Cerere attorno al 930, nel luogo che secondo la leggenda avrebbe ospitato il monastero fondato da Flavia Giulia Elena, madre dell’imperatore Costantino, di cui santa Patrizia sarebbe stata una discendente. Secondo altre fonti più accreditate invece, con molta probabilità la datazione della costruzione originaria risale all’VIII secolo e fu avviata quando nel luogo giunsero un gruppo di monache basiliane seguaci della santa che, in fuga da Costantinopoli, si sarebbero stabilite in città dopo la morte della religiosa, portando con loro anche le reliquie di san Gregorio Armeno (che fu patriarca di Armenia dal 257 al 331). Nel 1009, in epoca normanna, il monastero si concretizzò in un’intera insula del centro antico con l’unificazione di quattro oratori circostanti tra loro dov’erano appunto insediate le monache quello di San Sebastiano, San Salvatore, San Gregorio e quello dedicato a San Pantaleone, quest’ultimo fondato dal vescovo Stefano II intorno alla metà dell’VIII secolo sull’altro lato della strada e che in un primo momento fu collegato al complesso monastico appena nato da un cavalcavia soprastante l’arteria urbana. In questa fase il nuovo edificio religioso assunse i voti della regola benedettina. Sin dalle sue origini il sostentamento del monastero avveniva attraverso diverse attività, tra le quali: grazie a donazioni economiche di famiglie nobiliari napoletane, tramite il pagamento da parte delle stesse di rette mensili utili per ospitare le figlie all’educandato interno al complesso, grazie al danaro percepito con la concessione in fitto di terreni di proprietà dell’istituto religioso o, ancora, attraverso gli alimenti provenienti dai lotti di terra che le religiose affidavano in gestione a contadini, i quali si erano tenuti a occuparsi della coltivazione e della distribuzione del raccolto. Le erogazioni delle famiglie napoletane erano comunque sufficienti per far fronte alle uscite ordinarie del complesso, in quanto tra le fanciulle ospitate e tra le monache si annoveravano donne appartenenti a rami nobili del regno di Napoli, tra cui spiccano i Pignatelli, Di Sangro, Minutolo e Caracciolo. Tuttavia nei casi straordinari (come durante le epidemie di peste, colera o piuttosto durante gli anni di guerra) le donazioni libere delle famiglie partenopee non bastavano più a garantire l’autosostentamento e perciò in questi casi le monache avevano quindi l’abitudine di chiedere soccorso ai re di Sicilia per riuscire a superare le grandi fasi di miseria; nel 1170 la richiesta fu infatti in favore di re Guglielmo II di Sicilia, che diede la possibilità alle benedettine di San Gregorio di disporre di un terreno demaniale, mentre nel 1192 in favore di re Tancredi, che invece donò annualmente al monastero copiose risorse alimentari. Gli aiuti concessi comunque non cessarono di sussistere neanche con l’avvento delle successive dinastie regnanti, a testimonianza del fatto che l’istituto religioso è sempre stato al centro delle attenzioni politiche, culturali e sociali della città.

Il nuovo monastero (XV-XVIII secolo)

Il 3 marzo 1443 Ferdinando I di Napoli ricevette all’interno dell’edificio sia la benedizione per la successione al trono del padre Alfonso V d’Aragona che il conferimento del titolo di duca di Calabria. Dopo il Concilio di Trento, nel 1566 fu stabilito l’obbligo di clausura delle monache, che fino ad allora conducevano una vita comunque attenta alla mondanità, infatti era usuale per l’ordine delle benedettine di stabilirsi nei centri più affollati dei nuclei urbani, proprio per vivere più a pieno i tessuti sociali delle città nelle quali si insediavano.

Vista sul campanile che collega due ali del complesso monastico

Vista sul campanile che collega due ali del complesso monastico. A partire dal 1572 il complesso subì un profondo rifacimento ad opera di Giovanni Francesco Mormando per il progetto e Giovanni Vincenzo Della Monica e Giovan Battista Cavagna per le fasi esecutive. I lavori consistettero nella ricostruzione ex novo di tutti i corpi di fabbrica preesistenti, con la realizzazione della nuova chiesa, questa volta defilata rispetto al monastero, e nella realizzazione del campanile con l’aggiunta di due registri superiori al ponte di congiunzione dei corpi di fabbrica claustrali; durante le diverse fasi del cantiere, comunque, le monache non abbandonarono mai il complesso religioso, potendo infatti alloggiare nelle ali dell’edificio che di volta in volta non erano interessate dai lavori. Tra il 1573 e il 1574 si registra ad opera del Della Monica il completamento di gran parte degli spazi di clausura, ampliando l’area monasteriale rispetto alla precedente grazie all’acquisto di nuovi edifici adiacenti, vedendo inoltre rifatte le celle delle monache e anche gli ambienti di servizio come le cucine, il refettorio e l’infermeria. Nello stesso tempo l’architetto si occupò anche di demolire la primitiva chiesa, di più ridotte dimensioni rispetto alla nuova e che insisteva pressoché al centro del chiostro attuale, e di creare il portale d’ingresso esterno con il grande scalone aperto che segue, entrambi in piperno.Al 1574 si devono poi i primi contratti firmati da Giovan Vincenzo Della Monica riguardanti il reperimento dei materiali da destinare alla nuova chiesa.Tra il 1576 e il 1577 intanto viene completata la cupola maiolicata della chiesa e ultimato il chiostro monumentale, nel quale fu rifatta una pavimentazione rialzata rispetto alla precedente, tant’è che la cappella dell’Idra, che in inizialmente costituiva una cappella della chiesa originaria, era sul livello della strada, mentre da questo momento in poi apparirà invece scavata nel suolo a mo’ di cripta.Nel 1579 a Domenico Fontana è invece dovuta la pavimentazione marmorea eseguita all’interno della chiesa, che vedrà completare i lavori strutturali necessari già nel 1580; pertanto nello stesso anno l’edificio, già consacrato un anno prima, sarà aperto al pubblico e pronto all’accoglienza dei fedeli.Tra il 1580 e il 1584 fu avviata la realizzazione del soffitto casettonato, decorato con pitture di Teodoro d’Errico e intagli di vari artigiani napoletani, e furono inoltre aperte alcune cappelle laterali della navata: nel 1582 si compì infatti quella di San Giovanni Battista mentre nel 1584 quella del Crocifisso.  Al 1589 risulta registrato l’ultimo pagamento eseguito in favore di Della Monica, che quindi probabilmente fu il realizzatore materiale delle opere fino ad allora compiute, mentre i documenti che citano come beneficiario il Cavagna sono datati intorno al 1595, lasciando pensare a questo punto che forse l’architetto subentrò al cantiere solo in una seconda fase.

Portale d’ingresso sotto il porticato del Cavagna

Nel 1606 fu completata proprio dal Cavagna la facciata esterna della chiesa e l’atrio col soprastante coro delle monache; al 1610 invece è registrata la costruzione del coro dietro l’abside (chiamato anche cappellone), opera di Gabriele Quaranta che vede sull’altare maggiore una tela commissionata a Ippolito Borghese nel 1612.Nel 1641 e fino al 1646, Bartolomeo Picchiatti prima e il figlio Francesco Antonio poi, guidarono un nuovo cantiere per la realizzazione dell’allungamento di un’ala del monastero verso ovest, aumentando di fatto il numero di dormitori disponibili per le monache.Ulteriori lavori si ebbero poi anche tra il 1682 e il 1685 che furono compiuti questa volta da Dionisio Lazzari, il quale fece il nuovo refettorio che affaccia sul chiostro; nel 1698 lo stesso Lazzari eseguì le balaustre di alcune cappelle laterali e altri elementi decorativi marmorei interni alla chiesa, come l’ancona marmorea che incornicia la tavola dell’Ascensione di Giovanni Bernardo Lama, quest’ultima eseguita già nel 1574. Durante i cantieri del XVII secolo fu inoltre restaurato il campanile della chiesa, al quale verrà donato l’aspetto che tuttora ha. Intorno al 1745 si ebbero altri interventi di restauro che adeguarono l’aspetto estetico della chiesa al gusto rococò: il progetto di questi lavori fu guidato e compiuto da Nicola Tagliacozzi Canale, che per l’occasione eseguì gli intagli del soffitto della navata, le grate del coro delle monache, gli stucchi e dorature interne, i cancelletti in ottone delle cappelle così come le balaustre delle prime di entrambi i lati.Nel 1759 fu invece costruito il cosiddetto “coro d’inverno”, ricavato al secondo piano dell’atrio d’ingresso, sopra il coro grande, in un punto più facile da raggiungere per le religiose e commissionato direttamente dalle stesse in quanto nelle occasioni in cui queste intendevano recitare le preghiere anche di notte o d’inverno, potevano farlo spostandosi direttamente dall’interno del monastero dov’erano le loro celle, senza dover perciò utilizzare necessariamente il coro principale, che era invece raggiungibile solo passando per il chiostro esterno.Intanto tra il Sei-Settecento furono ancor di più aggravate le restrizioni che interessavano la condotta del monastero, stabilendo vincoli nel decoro dei locali, nell’alimentazione, nelle modalità di ricevimento degli ospiti e in altri aspetti.

XIX e XX secolo

Quinta cappella di destra: il reliquiario in oro e argento contenente le spoglie di santa Patrizia

Con l’avvento di Gioacchino Murat agli inizi dell’Ottocento il monastero rientrò in un primo momento nell’elenco di quelli da sopprimere; con decreto del 1808 tuttavia gli fu concesso di avere il privilegio di continuare ad esistere (uno dei pochi monasteri benedettini rimasti superstite dalle soppressioni napoleoniche) probabilmente anche grazie al fatto che questo era uno dei più ricchi della città, disponendo infatti di un capitale di 27.760 ducati. In questa fase furono portate in chiesa le reliquie di santi che erano fino ad allora in altri conventi poi soppressi, come quelle nella chiesa dei Santi Marcellino e Festo o come quelle custodite in Santa Maria Donnaromita, andandosi così ad aggiungere a quelle di san Giovanni Battista portate in struttura già nel 1577 dalla chiesa di Sant’Arcangelo a Baiano. Dal 1864, dopo l’Unità d’Italia, furono traslate in chiesa anche le spoglie di santa Patrizia, provenienti dalla chiesa dei Santi Nicandro e Marciano; da quel momento in San Gregorio Armeno si svolge il rito dello scioglimento del sangue della santa (procedura simile a quella di san Gennaro nel duomo) e così, a suggello della devozione dei napoletani per la Vergine, la chiesa è conosciuta volgarmente anche con l’intitolazione alla santa di Costantinopoli. I primi decenni del Novecento iniziarono in maniera non ottimale per il monastero: le monache, infatti, sempre più ridotte di numero e sempre più povere, di volta in volta chiedevano ai re d’Italia aiuti e forme di finanziamento adatti alla sopravvivenza dell’edificio religioso, che invece era addirittura minacciato dal comune in quanto questi era intenzionato a scorporare la struttura in più plessi, tant’è che alcuni corpi di fabbrica di proprietà delle religiose furono già acquisiti dalla città, con lo scopo di creare biblioteche, musei o scuole pubbliche.Per scongiurare questo pericolo l’ultima badessa, Giulia Caravita dei principi di Sirignano, acconsentì all’ingresso nel monastero di una nuova congregazione, quella delle Suore crocifisse adoratrici dell’Eucaristia; il nuovo ordine prese quindi possesso dell’edificio il 4 dicembre 1922, quando rimase attiva solo una monaca benedettina, che fu anche l’ultima, Maria Peluso. Intorno agli anni ’50 riprese l’attività educativa dell’istituto religioso con la creazione della “Casa di educazione e istruzione per fanciulle orfane e bisognose di assistenza”, che indirizzava l’interesse più verso le realtà difficili della città che verso le fanciulle appartenenti alla nobiltà napoletana, cosa quest’ultima che invece accadeva con il precedente educandato benedettino.

La Chiesa e il Chiostro di San Gregorio Armeno a Napoli